Testo: Prof. Mauro Vincenzo Fontana - Università degli Studi Roma Tre
Nel Duomo di Salerno, e segnatamente nella cripta deputata a custodire il veneratissimo corpo di San Matteo, a partire dal febbraio del 1600 Domenico Fontana aveva condotto un mirabile progetto di riallestimento. Concepita e sviluppata in parallelo all’impresa gemella coordinata nella cattedrale di Sant’Andrea ad Amalfi, l’operazione fu ambiziosissima. Grazie al concorso di un’assortita squadra di maestranze, l’architetto ticinese riuscì infatti a trasformare quegli spazi ormai inadeguati in repositori sacri sensazionali e rifulgenti, capaci di evocare agli occhi dei fedeli l’impareggiabile magnificenza delle iniziative papali e, per questo, di rispondere come meglio non si sarebbe potuto alle attese di una committenza di primissimo profilo che, attraverso i viceré Juan de Zúñiga y Avellaneda, Enrique de Guzmán e Fernando Ruiz de Castro, aveva chiamato in causa addirittura Filippo II e Filippo III in persona.
Finanziati attraverso ingenti prelievi di ducati dall’erario delle Provincie, i lavori procedettero a Salerno come ad Amalfi secondo un piano d’azione congiunto, che impose al ticinese lo sforzo ulteriore di una programmazione e un coordinamento simultanei. Passate alla morte di Domenico nel 1607 nelle mani di Giulio Cesare, le operazioni si protrassero sino al 1612, trasformando in maniera radicale la pristina veste degli ambienti, letteralmente trasfigurati dai «bellissimi marmi bianchi e mischi», dalle abbacinanti sculture in bronzo, dai pregiati rilievi lapidei, dai rilucenti «stucchi posti ad oro» e dalle variopinte «historie» affrescate tra i partimenti delle volte.
Come hanno puntualizzato le ricerche degli ultimi anni grazie a ripetuti carotaggi in archivio, i cantieri furono animati dal concorso di tanti profili diversi per formazione, competenze e posizionamento all’interno del competitivo mercato dell’arte meridionale. Ma a differenza di quanto accadde nella tribuna della cattedrale napoletana – dove il pittore Giovanni Balducci operò con una piena autonomia sul piano progettuale e operativo, a Salerno e ad Amalfi tutte le maestranze interpellate dovettero rispondere indistintamente a una cabina di comando che al vertice aveva il solo architetto ticinese, cui oltre alla direzione tecnica degli appalti, venne affidata pure la loro gestione sul piano economico e contabile.
Per quanto le straordinarie capacità organizzative dell’architetto ticinese riuscirono a garantire un avvio pressoché sincronizzato delle due imprese decorative, il primo pittore a ottenere formalmente l’incarico fu Belisario Corenzio, che riscosse il proprio acconto il 9 aprile 1603, appena un giorno prima di quanto accadde a Vincenzo De Pino, il collega coinvolto ad Amalfi. Persa la possibilità di lavorare nel duomo di Napoli per via della profonda reciprocità che univa il rivale Balducci a monsignor Gesualdo, a distanza di qualche anno il greco entrava dunque con un ruolo da protagonista nel grande appalto salernitano, dove più che una diretta intercessione dall’alto di Fontana – su cui comunque non affiora oggi alcun tipo di evidenza –, a traghettarlo dovettero essere le proprie stesse risorse, e cioè la reputazione e i contatti che egli poteva vantare tra le più alte sfere della committenza meridionale, tanto ecclesiastica quanto laicale
Forse per via di qualche intoppo nell’afflusso dei finanziamenti, o magari a causa del sovrapporsi di altre incombenze, Belisario concluse i lavori in un lasso di tempo molto più ampio dell’anno concordato, credibilmente operando in due fasi distinte: una corrispondente grosso modo al biennio 1603-1604 e l’altra, dopo un periodo d’arresto durato circa un paio d’anni, protrattasi dal 1606 al 1608. Sicuramente avvalendosi dell’aiuto di qualche collaboratore, e non senza una progettazione grafica preliminare di cui ci rimane testimonianza attraverso il Convito in casa di Matteo del Louvre, Corenzio tradusse in immagini un articolato progetto narrativo a livelli intrecciati, che grazie a un calibrato gioco di rispondenze, simmetrie e alternanze, ricuciva attorno a una principale linea di racconto con le Storie della vita di Cristo altri quattro cicli di proporzioni più contenute: il primo deputato a celebrare le reliquie di San Matteo e il loro arrivo nella cittadina campana, il secondo dedicato ai santi martiri salernitani Caio, Fortunato e Ante, il terzo votato a San Grammazio vescovo e il quarto, infine, composto da una serie di lunette e oculi popo- lati ora da angeli reggi-cartiglio, ora da puttini a figura intera. Ispirato almeno in parte al De vita et gestis beati Matthaei pubblicato nel 1580 da Marco Antonio Marsilio Colonna, presule a Salerno dal 1584 al 1589, e varato non senza l’avvallo di Mario Bolognini, che resse invece la cattedra dal 1591 al 1605, il programma iconografico venne con ogni pro- babilità apparecchiato da Gaspare Mosca, bibliotecario, archivista e versatile conoscitore della storiografia ecclesiastica locale, il quale tenne rapporti accertati con Cesare Baronio.