testo di Eleonora Barabaschi
Il 15 febbraio del 1530 i Fabbricieri della Basilica di Santa Maria di Campagna a Piacenza, da poco terminata, incaricano il Pordenone della decorazione della Cupola maggiore e di altre parti dell’edificio. Non è chiaro come la scelta sia caduta proprio sul pittore friulano, di cui è però certo che il talento straordinario di frescante, oltre che l’arditezza di linguaggio figurativo - quelle caratteristiche di “terribilità e furore” che il Vasari efficacemente gli ha attribuito - fossero ben noti in ambito piacentino, grazie alla Cappella Pallavicino nella Chiesa dell’Annunciata a Cortemaggiore, appena terminata, e, probabilmente, anche in virtù della fama delle spettacolari scene della Passione di Cristo, dipinte nel Duomo di Cremona nei primi anni Venti.
Ai dipinti piacentini l’artista si dedicherà a periodi alterni tra 1530 e 1536 (il 31 dicembre di quest’anno i Fabbricieri si muoveranno per vie legali, con l’intento di chiudere tutti i conti in sospeso con Giovanni Antonio de’ Sacchis), con esiti straordinari quanto a potenza di linguaggio, virtuosismo pittorico e ricchezza di contenuti, in una tecnica, quella dell’affresco, a lui particolarmente congeniale.
Egli dipingerà tutti gli affreschi della cupola maggiore, sino al fregio, il magnifico Sant’Agostino a sinistra dell’ingresso e le due cappelle situate dallo stesso lato: la Cappella di Santa Caterina, con le vicende della vita della Santa e il suo martirio, e la Cappela dei Magi, con la Nascita della Vergine, l’Adorazione dei Magi, l’Adorazione dei Pastori e la Fuga in Egitto.
Collegamenti esterni:
Banca di Piacenza - Salita al Pordenone
Dall’alto della lanterna centrale il Dio Padre in volo, potentemente scorciato con mirabile arte dal Pordenone a oltre trenta metri d’altezza, si volge verso un mondo dai colori abbacinanti in cui figure di Sibille, Profeti e altri personaggi dell’Antico Testamento dialogano con il Mito e la Storia. Narrano attraverso la Parola e il simbolo la gloria della Vergine, strumento di Redenzione nonché oggetto di millenaria devozione in Santa Maria di Campagna.
Disse Ferdinando Arisi dei maestosi Profeti pordenoniani che grandeggiano in ciascuno degli otto spicchi: “Sono i giganti della Chiesa di Dio; non danno la scalata all’Olimpo ma sono pronti a difenderlo”. Essi si rivolgono al Creatore, o dissertano l’uno con l’altro: sono coloro che hanno preannunciato la venuta di Cristo, sono il tramite tra il Divino e le genti, a loro volta evocate dai personaggi che popolano le storie mitologiche di trionfo della virtù sul vizio narrate nel fregio al di sotto.
Tutto il programma decorativo della Cupola centrale appare essere incentrato sul cammino di salvezza compiuto dall’uomo attraverso la Storia, avvalendosi, oltre che degli imponenti personaggi che campeggiano negli spicchi, di figure e vicende paradigmatiche secondo un complesso e pressoché oscuro meccanismo di rispondenze, che dovrebbe collegare gli episodi veterotestamentari narrati negli ovati lungo i costoloni e gli exempla di giustizia, eroismo e virtù del mondo antico illustrati nei tondi posti tra una scena e l’altra del fregio mitologico.
A circoscrivere gli squarci di cielo in cui si muovono i veggenti, vi sono otto costoloni abitati da una profusione di putti intenti in una lotta giocosa con animali veri o fantastici, in una sorta di danza, che corre anche lungo l’anello centrale.
Sia la grande varietà di oggetti e animali che compaiono nelle cornici - forse solo apparentemente - decorative, sia il loro legame con gli altri soggetti del ciclo e il legame stesso di questi ultimi l’uno con l’altro sono ben lungi dall’essere spiegati in via definitiva; alcuni degli exempla antichi raffigurati nei tondi sono piuttosto rari, quali la Battaglia di Cinegiro e l’Innocenza della Vestale Tuccia, mentre le sentenze celebri quali la Giustizia di Traiano sono assai frequenti tra tardo medioevo e rinascimento ma in altro contesto, quello delle decorazioni delle sedi civiche, specialmente in Europa settentrionale.
Una delle letture che è apparsa tra le più convincenti è quella della studiosa Jaqueline Biscontin (1980), che riconduceva gli episodi di storia antica nei tondi al Factorum et dictorum memorabilium libri di Valerio Massimo, un repertorio compilato nel I secolo d.C. con exempla tratti da varie fonti antiche, di cui nel primo Cinquecento era disponibile una traduzione italiana. Successivamente (Roberto Guerrini, 1981-1984) si è appurato tuttavia che i medaglioni sono interpretabili soltanto parzialmente sulla base di Valerio Massimo, e alcuni di essi sembrano mutuati piuttosto da un commento umanistico a tale testo come quello - assai diffuso nel XVI secolo - di Oliverius Arzignanensis, strutturato con indici e tabelle e completato con indicazione delle fonti e di altre opere antiche contenenti il medesimo episodio.
L’utilizzo in un edificio di culto di soggetti associati al tema della giustizia e della virtù, altrove impiegato in decorazioni di destinazione municipale, potrebbe essere qui legato proprio alla particolare valenza “civica” della Basilica di Santa Maria di Campagna, secondo la medesima operazione concettuale con la quale la città, sotto forma di scenario urbano, si fa protagonista delle vicende sacre narrate nella Cappella di Santa Caterina e nella Cappella dei Magi.
In ogni caso, chi può aver elaborato un programma iconografico di tale complessità, talmente elaborato da riuscire oggi difficile decifrarlo per intero? Forse i Fabbricieri stessi di Santa Maria di Campagna, in gran parte provenienti da famiglie dell’antica nobiltà cittadina, membri di una élite politica e culturale oltreché religiosa?
Diversi studi tendono peraltro ad attribuire alla complessa combinazione di iconografia cristiana, mito e storia antica un carattere “enciclopedico” che non può essere ricondotto ad un singolo messaggio, ma che concorre ad evocare l’annuncio della Redenzione, vera protagonista.
Questo alla luce dell’evidente difficoltà ad individuare un programma in cui ciascuna parte sia interconnessa con le altre, e veicoli un significato univoco, legato ad un unico testo che alcuni studiosi in passato hanno indicato essere il De civitate Dei di Sant’Agostino (raffigurato dal Pordenone stesso nella Basilica), interpretazione che oggi non riesce a convincere appieno a causa dell’assenza di una vera e propria corrispondenza con il testo agostiniano.
Secondo una recente ipotesi (Jason Di Resta, 2015) l’indeterminatezza iconografica, fatta di giustapposizioni e ambiguità, e una sorta di “eccesso” figurativo - esuberante ma privo di ridondanza - sono parte di una strategia ben precisa di abundantia pittorica dell’artista, in cui il potenziale comunicativo dell’umano fare artistico dialoga con l’icona divinizzata della Madonna di Campagna (che ancora oggi campeggia sull’altar maggiore) con la quale i personaggi della cupola sono posti in relazione visiva, evidenziandone e rafforzandone l’aura miracolosa.
A tale esperienza del sacro attraverso l’artificio pittorico concorrono tutte le componenti della cupola dipinta, ciascuna mantenendo la propria autonomia, così anche per le splendide cornici popolate da putti, animali e svariati oggetti, il cui affascinante e per certi versi ermetico repertorio ornamentale può essere percepito allo stesso modo delle grottesche, come un palinsesto di segni in cui ci si accosta all’essenza delle cose e alla complessità del creato attraverso un linguaggio criptico.
Bibliografia
E. Barabaschi (a cura di), Pordenone in Santa Maria di Campagna, Piacenza, Banca di Piacenza, 2017